Le parole, a volte, possono essere superflue, quando non dannose. Le parole da sole, per quanto ben vestite davanti alla Corte del Giudizio, non servono a costruire i mattoni della società: a quello ci pensano le azioni. Ma nell’era del “dire qualcosa a tutti i costi“, quell’emissione spontanea di aria può assumere, molto spesso, il volto dell’idiozia. Parliamo di tutto e di tutti… soprattutto senza sapere bene di cosa stiamo parlando.
Rasentiamo il limite della decenza soprattutto quando cerchiamo di incatenare le persone nella caotica ragnatela dei giudizi. Quando con una frase buttata lì leghiamo al palo tutto il vissuto, le aspettative, i sogni, le sofferenze, le gioie, le paure e le speranze che appartengono all’intera vita di qualcun’altro che non siamo noi. Capito bene, siamo dei falsi empatici che si fanno trasportare dal bisogno di avere più credibilità sociale… ma per farlo abbiamo bisogno di piazzare la nostra vittima sull’altro piatto della bilancia, privandola del suo “peso”.
Ci arroghiamo il diritto di bollare il vissuto di un’intera vita, e lo facciamo improvvisando la chiacchiera del momento, difendendo a spada tratta “tutto quello che ci sembra“, in chiave last minute. Voglio tornare bambina, perché come Leonard riuscivo a dimenticare i pregiudizi dell’ultimo quarto d’ora… E riuscivo a reinventarmi sempre in base alle cose nuove che mi accadevano. Nel mondo adulto, invece, lo sproloquio è la colonna di sottofondo con cui realizziamo le nostre giornate: nemmeno il tempo di pensare a chi sei, e già si è in pasto ad una vocina insinuante, che manifesta tutta la tua inettitudine a diventare quello che dovresti essere.
Siamo spacciati: fossilizzati intorno al falso mito del “contare qualcosa” e solo per aver espresso un misero giudizio intorno alle miserie altrui. Troppo facile pigiare il pulsante di un telecomando e pensare di “essere qualcuno”. Stiamo solo lanciando il surrogato del nostro valore. Quanta illusione si cela nell’ipnosi collettiva dei falsi bisogni, irraggiati da una miriade di led puntati sul nostro inconscio… e il tragico e che sappiamo sin dall’inizio che quello spettacolo finirà ben presto. E senza lasciare traccia dietro di se.
Forse quella presunzione di voler sapere tutto, ci impedisce di cominciare ad “imparare” veramente qualcosa. Provate ad usare il silenzio: nell’assenza totale di parole, riuscite a sentire quanto rumore facevate prima e, soprattutto, quante parole avete lanciato nell’aria inutilmente? Smettere di pensare alle presunte disattese degli altri può essere “un inizio di”, forse la molla della nostra libertà, sicuramente qualcosa che non sia più uno specchio delle nostre miserabili insicurezze.